COMUNICATO STAMPA del 18.06.2005
Il 17 Giugno 2005, presso l’Aula Magna del Liceo “F. Maurolico” di Messina, si è svolto l’incontro, organizzato dal Kiwanis Junior Club Peloro Messina, dal titolo
“Paradossi ed enigmi dell’ infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo”, relatori il Dr. Alfonso Mangione ed il Dr. Antonino Picciotto del Dipartimento di Fisica dell’Università di Messina.
Dopo la presentazione dei due ricercatori da parte della presidentessa, Dr. Tiziana Bello, è stato discusso lo studio presentato dai relatori. Gli argomenti trattati, brillantemente esposti dai due
relatori, hanno affascinato il pubblico presente. Di seguito viene proposto un breve estratto fornitoci dai relatori.
La possibilità, per l’uomo, di esplorare la realtà su scale spazio-temporali molto più grandi o molto più piccole rispetto alle sue dimensioni ordinarie può
indurre riflessioni in merito alla conoscenza della stessa realtà umana, in aggiunta ai risultati, generalmente più evidenti, dell’osservazione dei sistemi “esterni” all’uomo ed oggetto di
indagine.
Per porre la questione in maniera più corretta sarà opportuno fissare alcuni ordini di grandezza, per cui si potrà pensare ad una scala spazio-temporale che ha come estremi l’età dell’Universo
(circa 1020 sec) e la vita media più breve tra le particelle note (10–20- 10-30 sec) nel tempo e, nello spazio, il raggio dell’Universo visibile (circa
1020 metri) e le dimensioni delle particelle (10–10 – 10–20 metri). In questo intervallo spazio-temporale, l’ “osservatore-uomo” si colloca più o meno in posizione
intermedia e da quel punto di vista osserva la realtà su differenti scale, a volte con differenti approcci. I principi e le leggi di Galileo, Newton e Maxwell e fino alla Relatività di Einstein
assicurarono per un lungo periodo storico una sorta di “unificazione” che riguardano fenomeni nelle dimensioni ordinarie dell’uomo e fenomeni che riguardano l’Universo. Oltre al vantaggio
concettuale di avere regole uniche per un gran numero di fenomeni, tali schemi restituiscono leggi matematiche del tutto precise e deterministiche che fino ai nostri giorni mantengono la loro
validità e il loro largo utilizzo.
Qualche difficoltà concettuale (valida a volte tutt’ora) nacque da quel che accadde nei primi anni del Novecento, allorquando una serie di condizioni permise di focalizzare l’attenzione sulla
realtà al livello dei suoi costituenti più elementari. Tutta una serie di esperimenti rivolti al “molto piccolo” portarono alla consapevolezza che, in quell’ambito, la natura seguisse regole
diverse da quelle che emergono nei fenomeni sulla scala spazio-temporale “ordinaria”. Si presentava, per l’osservatore-uomo, la necessità di guardare ad una parte della realtà con uno schema
conoscitivo nuovo e tale necessità creò (e per certi versi continua a creare) paradossi ed enigmi che non appartengono soltanto agli ambiti specialistici ma coinvolgono il modo stesso dell’uomo di
porsi di fronte alla realtà che lo circonda.
Il comportamento “diverso” del “molto piccolo” consiste, innanzitutto, nella perdita di quel carattere continuo al quale siamo abituati a pensare nelle nostre dimensioni ordinarie, per acquistare
natura discreta, in tutte le sue componenti. E questo non è banale, dal momento che, se riesce abbastanza agevole pensare alle “particelle” di cui siamo costituiti quali entità singole che si
aggregano, meno semplice è pensare che altre grandezze abbiano questo carattere, come ad esempio l’energia e la radiazione elettromagnetica (e quindi anche la luce visibile).
Oltre alla constatazione dell’aspetto quantizzato della natura, gli esperimenti sul “molto piccolo” dimostrano la duplice natura corpuscolare-ondulatoria della materia, che obiettivamente
costituisce un concetto che sfugge dai nostri schemi abituali. E forse ancora più al di fuori di tali schemi si colloca il carattere ibrido delle particelle, per le quali gli esperimenti indicano
la possibilità di essere contemporaneamente in posti differenti e, più in generale, di avere “qualità” non univoche, il che stride nettamente con la comune percezione della realtà, secondo la quale
qualcosa che si osserva si mostra o in un modo o in un altro. Tali scoperte sulle caratteristiche del “molto piccolo”, insieme con il cosiddetto principio di indeterminazione, che in termini
semplici impedisce, in questo ambito, l’osservazione contemporanea di due variabili con la stessa precisione (più o meno come se, nel macro, io osservassi questo articolo e dovessi essere costretto
a scegliere se essere sicuro di dire che si trova davanti a me oppure essere sicuro di dire che sta fermo), posero le basi per lo sviluppo di una nuova fisica, con nuove leggi matematiche, valida
in questo ambito e nota come fisica quantistica. In ogni caso, attraverso tale nuovo schema si riescono a spiegare i comportamenti del “molto piccolo” e questo potrebbe essere un punto di arrivo
più che soddisfacente.
Tuttavia qualche difficoltà (concettuale) sorge quando i due mondi del macro e del “molto piccolo”, con le loro diverse regole, entrano in contatto, segnatamente quando l’osservatore (uomo o suo
strumento), che è macroscopico, studia il “molto piccolo“e quindi, in qualche modo, i due ambiti vengono portati allo stesso livello. Diventano lecite, almeno ad una prima analisi, domande del
tipo: «Perché non si è in grado di osservare direttamente le sovrapposizioni delle “qualità ibride”? Ovvero perché riusciamo ad osservare solo una faccia della realtà». «Chi o che cosa ha deciso
che delle diverse “nature” che convivono in quell’oggetto emergesse proprio quella che sto osservando?». Tali dubbi accompagnarono fin dall’inizio la costruzione di questo nuovo schema, come
dimostra, tra gli altri, il cosiddetto paradosso del “gatto di Schroedinger”.
La posizione stessa degli addetti ai lavori nei confronti di questo schema mentale non risulta univoca. A tale proposito può essere istruttiva una classificazione proposta da Penrose (per questo ed
altri riferimenti in questo scritto, cfr. R. Penrose, Il grande il piccolo e la mente umana, Raffaello Cortina Editore, 1998), secondo il quale si possono individuare gli studiosi che “credono”
allo schema quantistico e quelli che ci credono “seriamente”. Nella prima categoria ricadono coloro per i quali lo schema è una nostra costruzione mentale che spiega correttamente i fenomeni, è in
grado di prevedere dei risultati con accuratezza ma ha un ambito di applicazione limitato al “molto piccolo”, per cui va considerato solo quando serve (For All Practical Purposes, FAPP). Nella
categoria dei “seri” vi ricadono coloro che vedono nello schema quantistico la scrittura di tutta l’evoluzione dell’Universo, comprendendo in essa tutti i fenomeni osservabili. Ma quest’ultimo
approccio, tuttavia, ha portato a chiedersi, per esempio, che fine fanno le qualità sovrapposte delle particelle quando, osservandole, ne facciamo emergere solo alcune. Una suggestiva risposta può
essere quella che si suole definire ipotesi dei molti mondi, secondo la quale, ogniqualvolta viene effettuata una osservazione, tutte quelle caratteristiche che sappiamo appartenere all’oggetto
osservato ma che non cogliamo, non essendo noi stessi in grado di percepire “nature misteriosamente sovrapposte”, si manifestano in universi cosiddetti paralleli, con i quali non siamo in grado di
comunicare.
Altri enigmi e paradossi ai quali tutt’ora si cerca di fornire una spiegazione plausibile (ad esempio il celebre paradosso di Einstein-Rosen-Podolsky, 1935), pur non minando le basi ben solide e
sperimentalmente verificate nel tempo dello schema quantistico, certo possono indurre a riflettere (e non solo gli scienziati) sul significato che comunemente attribuiamo alla percezione, in
particolare se esso sia un concetto davvero da ridefinire.
Il seguito dell’intervento ha riguardato i settori di punta della ricerca scientifica odierna in astrofisica e cosmologia.
In particolare, si è posta l’attenzione sugli oggetti astrofisici più interessanti ma allo stesso tempo più complicati ed enigmatici che popolano l’universo e che sono stati scoperti dapprima, con
l’ausilio di studi teorici e simulazioni al computer e dopo per mezzo di sonde e satelliti inviati nello spazio. Tutto questo è stato esposto dopo un’ampia introduzione della teoria cosmologica
oggi più accreditata che è la teoria del Big Bang che spiega in qualche modo la nascita e l’evoluzione dell’universo. In effetti, gli astrofisici sono riusciti a risalire fino al primo centesimo di
secondo dopo il Big Bang (il termine Big Bang non è altro che la traduzione inglese di “grande botto” o “grande esplosione”).
In principio ci fu, infatti, un’esplosione, che si verificò simultaneamente e ovunque, dopo qualche istante l’Universo non era più grande della capocchia di uno spillo con temperature e densità che
la nostra mente fa fatica a quantificare.
Da questa fornace cosmica dove la temperatura si aggirava intorno ai 100 miliardi di gradi, sono nate dalla pura energia, tutte le particelle che compongono la materia come la conosciamo noi oggi,
quarks, elettroni, fotoni e neutrini dopo qualche secondo neutroni e protoni.Durante questi primi istanti l’Universo si espande ad una velocità estremamente elevata (“era inflattiva”) per poi
raffreddarsi lentamente. Oggi sappiamo che la temperatura dell’universo è di circa 2,7 °K (-270 °C).
In realtà da questa grande esplosione si creano contemporaneamente alle particelle di materia, le particelle di antimateria. Cioè particelle che hanno le stesse caratteristiche fisiche delle
particelle convenzionali ma differiscono dalle prime dal fatto di possedere carica elettrica opposta. Infatti insieme all’elettrone particella con carica negativa si crea l’antielettrone,
particella con carica positiva, e quindi anche i quarks con i loro cugini antiquarks, i protoni e gli antiprotoni e cosi via. Ogni particella infatti, come formulato negli anni trenta dal grande
fisico Paul Dirac, ha una sua per cosi dire, immagine speculare di se stessa. Ricorda un po’ la storia di Dr Jekyll e Mr Hyde. Tuttavia uno degli enigmi più interessanti risiede nel fatto che
all’inizio dell’universo dovevano esistere uguali quantità di materia e di antimateria che ogni secondo interagivano tra di loro, si dice in fisica si “ annichilavano” e si trasformavano in energia
e radiazioni, si ricreavano e si annientavano continuamente. L’universo in questo caso si trovava in una situazione di assoluta simmetria. Tuttavia oggi sappiamo dagli studi degli scienziati che in
realtà non tutte le particelle si sono annichilate con le antiparticelle, ci sarà stato una piccola sovrabbondanza delle une sulle altre che ha rotto la simmetria (si dice in fisica “Rottura
spontanea di Simmetria”) e fortunatamente per noi l’universo si evoluto poi in galassie, stelle, pianeti ed esseri umani composti di materia.
La materia tuttavia può essere annientata e stritolata fin oltre l’immaginabile a causa di mostri cosmici come i Buchi Neri. Il termine buco nero fu coniato dal fisico americano John Wheeler come
espressione di una stella sottoposta ad un totale collasso gravitazionale. Per semplificare un po’ il concetto diciamo che le stelle che vediamo alzando gli occhi al cielo nelle notti limpide, non
sono altro che sfere di gas incandescenti (plasmi) che si mantengono in equilibrio tra due forze titaniche in perenne conflitto, la gravità che tende a comprimere la stella e la forza di pressione
che scaturisce dalla reazioni nucleari nel nucleo dell’astro che tende ad espanderla. Quando queste due forze si equilibrano la stella trascorre la sua vita tranquillamente bruciando il suo
combustibile principale, l’idrogeno, trasformandolo in elio.
Le stelle in realtà non sono altro che dei reattori nucleari di immensa energia. Quando però il combustibile principale si esaurisce la stella per mantenersi in equilibrio deve bruciare elementi
via via sempre più pesanti quali elio, carbonio, silicio, ferro. Una volta arrivati alla combustione del ferro le reazioni nucleari del core della stella non producono più energia ma anzi la
assorbano, non essendoci più la spinta verso l’alto, la gravità comprime il nucleo e per stelle di grande massa questo nucleo diventa un buco nero, nel quale la forza di gravità è così elevata che
neanche la luce può sfuggire da un simile oggetto e risulta appunto non visibile, quindi nero. Secondo la teoria della relatività generale di Einstein i buchi neri rappresentano delle deformazioni
dello spazio-tempo nelle quali le leggi della fisica come le conosciamo noi perdono di validità, dei vortici immensi dove il tempo si congela e qualsiasi cosa cada dentro questi mostri viene
annientato dalla forza di gravità. Tuttavia è possibile individuare i buchi neri a causa dell’influenza gravitazionale che essi hanno per esempio sulle stelle vicine. Non sono rari i casi nei quali
un buco nero risucchia come un aspirapolvere cosmico l’atmosfera di una stella compagna. I gas dell’atmosfera della stella vengono compressi e riscaldati a tal punto durante la caduta dentro il
buco nero, che si osserva un’intensa emissione di raggi X che i nostri strumenti sui satelliti possono rivelare.
In aggiunta a questo esistono altri misteri irrisolti del cosmo come per esempio la materia oscura (Dark Matter), una sorta di materia esotica che non riusciamo ad osservare con i nostri telescopi,
ma che influenza gravitazionalmente il movimento di stelle e galassia. Ancora oggi non si conoscono le particelle che compongono questa materia oscura, alcuni pensano siano delle particelle
massicce debolmente interagenti altri stelle piccole e poco luminose come le “nane brune”, altri ancora le particelle più elusive che conosciamo, i neutrini. Lo studio e la ricerca della materia
oscura è molto importante in quanto il destino dell’universo è legato ad essa.
Lo spazio, l’ultima frontiera è così grande e i suoi fenomeni sono così colossali che spesso ci sentiamo soli ed indifesi al solo pensiero, tuttavia lo studio e la ricerca delle spiegazioni, dei
perché noi e l’universo esistiamo, rappresentano delle sfide che la nostra mente può e deve svelare.
L'Addetto Stampa
Sabrina Munaò
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