Kiwanis Junior Distretto Italia
Anno Sociale 2010-2011

"L'Amicizia abbatte le barriere"

 

Saverio Gerardis Governatore

 

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Reggio Calabria, 25.06.2011

Conferenza -IL TESTAMENTO BIOLOGICO:
PRIME RIFLESSIONI SUL D.L. SUL FINE VITA-
Relatore: Avv. Giuseppe Cristaldi - Notaio

Signore e Signori
Intanto prima di iniziare, permettetemi di ringraziare il Governatore del Kiwanis Junior Distretto Italia Saverio Gerardis per l’invito a parlarvi questa sera. Ho accettato con gioia, perché ne ho seguito nel corso dell’anno l’attività, nella mia qualità di Luogotenente del Kiwanis Distretto Italia San Marino, e ne ho apprezzato le qualità di motivatore e di leader del suo movimento, al quale è difficile dire di no.
L’argomento che abbiamo scelto insieme è stato ovviamente suggerito dalle vicende di cronaca, ritengo a voi tutti ben note, e dalle polemiche in merito al c.d. accanimento terapeutico che hanno generato. Mi riferisco in particolare alle vicende di Piergiorgio Welby e Eluana Englaro e al loro enorme impatto mediatico. Queste tristi vicende hanno indubbiamente avuto un ruolo nell’accelerare un processo evolutivo, peraltro già presente nella nostra società, anche per l’opera di scienziati come Umberto Veronesi, tendente a rivedere le convinzioni e le consuetudini, per lo più derivate dalla Dottrina cattolica, in merito al c.d. fine vita.
Scopo di questo mio lavoro è quello di illustrarvi il progetto di legge che vuole regolamentare questa evoluzione del nostro costume. Tema difficile e sfuggente, perché impone di fare continui riferimenti alla morale e alla medicina. Progetto che sembrava prossimo all’approvazione, ma che le ultime vicende politiche hanno fatto riporre nel cassetto dei nostri parlamentari.
Non credo che esistano molti umani al mondo che vogliano vivere e morire senza cure, senza cioè provare a resistere e a guarire pur di prolungare la propria vita. Dobbiamo però prendere atto che, già da tempo la civiltà occidentale sta dando prova di considerare il prolungamento della vita tout court quasi un disvalore, perché si pretende che la vita si svolga all’insegna della salute piena, per poterla godere. Insomma abbiamo paura del dolore e della sofferenza fisica e pretendiamo che durino poco. Le malattie incurabili o croniche ci spaventano, perché limitano la nostra libertà di movimento.
Da questa paura del dolore fisico nasce l’avversione per l’accanimento terapeutico. Il protrarsi della vita grazie a medicine o apparecchiature mediche non è più visto come l’estremo tentativo di lottare contro la morte, di inseguire la speranza di una guarigione, ma quasi come una tortura. Infatti si dice ormai comunemente, che, piuttosto che soffrire in letto è meglio “morire con dignità”, che non esiste un dovere di vivere ad ogni costo (cfr. Umberto Veronesi), ecc…
In verità, anche la Chiesa Cattolica ha da tempo rinunciato a difendere l’accanimento terapeutico, accettando che nei malati terminali ci si limitasse a lenire il dolore. Ma questa ammissione è sempre stata fatta avvertendo che la c.d. eutanasia (dolce morte) rimaneva peccato grave.
Ma qual è la linea di confine tra l’abbandono moralmente lecito di cure ormai inutili e che non producono effetto (accanimento terapeutico) e l’eutanasia moralmente illecita?
La risposta dipende anche dall’angolo visuale scelto.
Da tempo nei nostri ospedali sono invalse le c.d. “pratiche eutanasiche”, cioè le terapie del dolore, che hanno come scopo di rendere sopportabile il dolore delle malattie gravi, che stanno per portare a morte il paziente. Basti pensare ai c.d. reparti Hospice per i malati terminali di cancro. Nei c.d. consensi informati per il trattamento terapeutico, i pazienti vengono avvertiti che l’uso di determinati farmaci, in particolare gli stupefacenti come la morfina, possono accelerare, con i loro effetti collaterali, l’evento morte.
Poiché definiamo accanimento terapeutico la lotta ormai vana contro una malattia all’ultimo stadio, e quindi legittima la rinuncia alle cure aggressive, l’eutanasia moralmente illecita deve quindi porsi in momento anteriore, cioè nella rinuncia per partito preso e sin dal loro sorgere, a curare malattie che di norma portano a morte con grandi sofferenze per limitarsi a lenire il dolore.
Piergiorgio Welby ha chiuso la sua vita trascorrendo degli anni attaccato ad un respiratore automatico, e chiedendo continuamente che qualcuno lo aiutasse a porre temine alle sue sofferenze. Questo aiuto gli è stato dato da un anestesista, il Dott. Riccio, che ha accettato di non riattaccare il respiratore, come chiestogli da Welby. Dopo la morte di Welby, il dott. Riccio è stato sottoposto contemporaneamente a procedimento disciplinare dell’Ordine dei medici al quale era iscritto, che era quello di Cremona, quindi della mia attuale città, e a processo penale. Il processo disciplinare non ha atteso, come di consueto, la fine del procedimento penale, ma si è concluso ben prima con una sentenza di assoluzione, basata sulla richiesta di fine accanimento terapeutico del paziente. Motivazione poi ripresa e sviluppata dal magistrato penale che ha assolto il dott. Riccio. Avendo la fortuna di essere amico di uno d quei medici giudici disciplinari, ho parlato a lungo con lui per comprendere le ragioni della loro decisione, che, a tutt’oggi, a legislazione quasi invariata, considero praeter legem, se non addirittura contra legem. Poiché il tema era scottante, ho letteralmente scaricato addosso al mio amico tutte le tesi anti eutanasia più diffuse, e quindi oltre a quelle morali, quelle giuridiche (omissione di soccorso, omicidio del consenziente) il tradimento del giuramento di Ippocrate ecc…, sentendomi rispondere che l’assoluzione era basata sulla necessità di porre fine all’accanimento terapeutico. Quello che ancora oggi mi sconvolge è il ricordo di quelle foto con lo sguardo implorante di Welby, che stanno li a provare la sua partecipazione al mondo che lo circondava, anche se non era più in grado di parlare.
Ancora più grave il caso Englaro. Eluana era ormai ridotta allo stato vegetativo. Era però ricoverata in una struttura religiosa dichiaratamente contro l’eutanasia. Il padre ha condotto una lunga battaglia legale per ottenere la definizione dell’alimentazione e idratazione forzata come accanimento terapeutico, onde poterle sospendere per causare la morte della figlia. Di questa vicenda vi era traccia evidente nel disegno di legge n.51 del Senato che all’art. 5 definiva idratazione e alimentazione parenterale pratiche non assimilabili all’accanimento terapeutico. Questo articolo è adesso scomparso dal testo approvato dal Senato e oggetto della proposta di Legge 2350 della Camera dei Deputati in attesa di discussione e approvazione, ed oggetto di questo intervento. Ma in realtà tutto il progetto di legge 51 era nato per impedire la morte di Eluana. Ricorderete il tentativo del governo di emanare un decreto legge e il rifiuto di firma del Capo dello Stato, che considerò incostituzionale un decreto che, come motivazione dell’urgenza, aveva solo quella di rovesciare un provvedimento della Magistratura. Ho detto provvedimento e non sentenza non a caso. La sentenza 21748/2007 della Cassazione in realtà non chiuse la vicenda giudiziaria, ma rinviò la causa ad una diversa sezione di Corte d’Appello di Milano, fissando due principi che oggi aleggiano nel progetto di legge e che sono i seguenti:
Per autorizzare l’interruzione della alimentazione artificiale occorre che:
-la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standards scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pur flebile recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno,
- tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni, ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.
Quindi il giudicato doveva formarsi al passaggio successivo. Ma non essendovi una causa a parti contrapposte, la Corte di Appello di Milano il 09.07.2008 ha emesso un decreto con cui ha autorizzato il padre, tutore di Eluana, ad interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione forzati alla figlia per la mancanza della benché minima possibilità di un qualche sia pur flebile recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno. In questo influenzati dal Codice di deontologia medica che all’art.34 afferma che il medico, in assenza di una esplicita manifestazione di volontà del paziente dovrà comunque tenere conto delle precedenti manifestazioni di volontà dello stesso, in aderenza alla Convenzione europea di bioetica del 1997, ratificata dal Parlamento italiano.
Sappiamo già del tentativo di ricorso per conflitto tra poteri dello stato contro la Cassazione accusata di aver emesso un provvedimento normativo, respinto dalla Consulta. Ciò ha fatto secondo me perdere di vista il fatto che il provvedimento finale era un decreto, cioè una autorizzazione revocabile, che non passa in giudicato, che è diventato esecutivo e poi definitivo con la morte di Eluana. E qui abbiamo la prova dell’avvenuto cambiamento del nostro modo di pensare a questo tema. Non discutiamo più se vogliamo una legge su testamento biologico, ma quanto ampia la vogliamo.
La discussione politica in Italia relativa al testamento biologico, pur in una trasversalità dei giudizi, ha posto la sua attenzione sulla questione della nutrizione artificiale e sulla scelta personale o di terzi di interrompere tale trattamento. Se la maggioranza di centro destra, che nella legge in discussione sulle dichiarazioni anticipate di trattamento escluderebbe la possibilità di richiedere qualunque pratica eutanasica e considera l’idratazione e l’alimentazione come sostegno vitale, l’opposizione di centro sinistra le ha subito ricomprese nelle terapie e come tali nell’ambito di autodeterminazione del paziente che la nuova legge dovrebbe consentire.
Veniamo adesso ad un più puntuale esame dell’articolato:
L’art.1 contiene i principi ispiratori della legge ed è quello che maggiormente risente del dibattito tra i due
Schieramenti politici, e dichiara sin dall’esordio di voler dare attuazione agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e pertanto:
-riconosce e tutela la vita umana come diritto inviolabile ed indisponibile anche nella fase terminale e anche se la persona non è più in grado di intendere e di volere fino alla morte accertata nei modi di legge ( e che come sappiamo coincide con la morte celebrale, elettroencefalogramma piatto, che precede la morte cardiaca, e ciò al fine di consentire l’espianto degli organi per i trapianti) (attua art. 2 e 13 Cost.). Importante anche l’indisponibilità, che deve essere intesa come impossibilità di definire la durata della propria vita.
-tutela la dignità di ogni persona rispetto all’interesse della società e alle applicazioni della tecnologia e della scienza: quindi non si può imporre di essere soggetti passivi di sperimentazione di cure, che, ad esempio, prolunghino la vita a prezzo di enormi sofferenze e dell’accettazione di condizioni di vita disagiate.
-vieta ai sensi degli articoli 575, 579 e 580 codice penale ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o aiuto al suicidio considerando l’attività medica nonché di assistenza alle persone esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute nonché all’alleviamento della sofferenza (attua art. 32 cost.)
-impone al medico l’obbligo di procurarsi il c.d. consenso informato al trattamento terapeutico, incoraggiando l’alleanza terapeutica tra medico e paziente e fatto salvo anche il diritto del paziente di rifiutare in tutto o in parte le informazioni che gli competono. In questo caso il rifiuto và esplicitato in un documento scritto dall’interessato, che va conservato nella cartella clinica
-vieta, salvo i casi previsti dalla legge e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana, di iniziare trattamenti medici o di imporne l’effettuazione;
-obbliga il medico, nel fine vita ad astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, non efficaci, o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obbiettivi di cura (condanna l’accanimento terapeutico fine a se stesso e nel momento dell’approssimarsi della morte del paziente) richiedendo in pratica che le cure siano finalizzate essenzialmente alla guarigione o al contenimento del dolore
-mette a carico dello Stato l’aiuto al paziente, in particolare dei soggetti incapaci di intendere e di volere e della loro famiglia (come avrebbe voluto il papà di Eluana).
Ma qual è il filo conduttore di questa norma, che tiene insieme il divieto di eutanasia attiva e di aiuto al suicidio e la condanna dell’accanimento terapeutico? La dignità della persona intesa come diritto a vivere in condizioni di salute accettabili, e come diritto di essere protagonista delle decisioni in merito alle cure da effettuare per raggiungere questo obbiettivo.
Quindi l’alleanza terapeutica tra medico e paziente è essenzialmente la condivisione delle scelte, che presuppone il consenso informato, oggetto dell’art. 2 del progetto di legge.
Pertanto sin dalle prime battute della legge si comincia a delineare il ruolo del medico curante, quale codecisore insieme al suo paziente. Anche se con il patema d’animo della responsabilità penale, perché la proposta di legge non prevede alcuna esimente, e quindi riserva al giudice di valutare ex post il comportamento del medico (mentre nella proposta 3607 Camera dei deputati si prevede all’art. 2 una esplicita esimente con l’introduzione dell’art. 580 bis nel c.p. che disapplica gli art. 579 e 580 c.p. nell’ipotesi in cui l’azione del terzo consista nella sospensione di cure mediche, in caso di grave e inguaribile patologia e accertata inutilità delle stesse. Proposta che però non va avanti perché inserita in un più grande progetto di riforma del diritto delle persone e della famiglia, troppo ardito per poter avere riscontro nella nostra vita.)
L’art. 2 si occupa del consenso informato. Ogni medico deve farselo rilasciare da i suoi pazienti, o dai parenti
Di questi ultimi, curando poi l’inserimento del documento nella cartella clinica e con ciò dando visibile attuazione all’alleanza terapeutica tra medico e paziente.
Sono previsti alcuni casi particolari: per gli interdetti lo sottoscrive il tutore. Per inabilitati e minori emancipati o sottoposti all’amministratore di sostegno assistente occorre la firma dell’assistito e del dell’assistente. L’amministratore di sostegno rappresentante invece sottoscrive in nome e conto dell’ammalato.
Nel caso di minori o maggiorenni incapaci di intendere e di volere e l’urgenza non consente di acquisire il consenso informato, la proposta di legge lascia al medico di agire secondo “scienza e coscienza” conformemente ai principi della deontologia medica e della emananda legge.
Il consenso informato non è invece richiesto quando la vita della persona incapace di intendere o di volere sia in pericolo per il verificarsi di un evento acuto.
L’art. 3 regola invece i contenuti della DICHIARAZIONE ANTICIPATA DI TRATTAMENTO.
Qui va dato conto del perché di questo nome in rapporto alla dizione corrente (sostenuta ad esempio da UMBERTO VERONESI) di testamento biologico. Se leggiamo l’art.587 c.c. che definisce il testamento, al primo comma viene stabilito che il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o parte di esse.
Il comma 2 fa salvi i testamenti a contenuto non patrimoniale.
La d.a.t. non è un testamento perché serve per disporre del proprio diritto di curarsi, e quindi per decidere di situazioni e tempi che precedono la morte.
La sottoscrizione della d.a.t esclude l’operatività e la possibilità che un terzo diverso dal fiduciario di cui all’art.6 possa occuparsi delle tematiche di cui al medesimo articolo e che vedremo, e ha come contenuto le scelte e gli orientamenti del futuro paziente in merito ai trattamenti sanitari in previsione di una eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere. E cioè la rinuncia a determinati trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale, purché in conformità a quanto prescritto dalla legge e dal codice di deontologia medica. E ciò per me andrebbe inteso nel senso di restringere enormemente il campo di utilizzo dell’istituto, considerato che il codice di deontologia medica, che comprende al suo interno il giuramento di Ippocrate, pur nelle sue varie riforme, non prevede come modo di esercizio dell’arte medica la rinuncia alle cure.
Nella d.a.t. non si possono inserire fattispecie che integrino le ipotesi di reato di cui agli art. 575 (omicidio), 579 (omicidio del consenziente) e580 (istigazione o aiuto al suicidio)
Il caso Englaro torna al comma 5 dell’art.3 dove l’alimentazione e l’idratazione vengono definiti come sostegno vitale e non come cura palliativa: infatti è proibito rinunciarvi. Se fosse stata in vigore, Eluana non sarebbe morta in quel modo che tutti sappiamo
La d.a.t comincia ad operare quando il paziente che l’ha sottoscritta perde la capacità di intendere e di volere. Questo suo status deve essere certificato da un collegio medico formato da un medico legale, un anestesista- rianimatore e un neurologo, sentiti il medico curante e l’esperto della patologia. Tutti nominati dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero o dalla struttura di ricovero o della azienda sanitaria locale di competenza a eccezione del medico curante nominato a suo tempo dal paziente.
Le d.a.t. non sono obbligatorie, devono avere forma scritta e data certa e la firma del soggetto interessato maggiorenne e capace di intendere e di volere e dopo una compiuta e puntuale informazione medico clinica, e possono anche essere dattiloscritte. Hanno validità 5 anni (salvo che il soggetto muoia prima) e allo scadere sono prive di efficacia e devono essere rinnovate con le forme appena descritte, e vengono raccolte dal medico curante, che le sottoscrive e a regime curerà l’inserimento nella banca dati del servizio sanitario nazionale, e cioè nell’apposito registro. Nel disegno di legge 51 del Senato la raccolta era affidata a noi notai, anche perché siamo già muniti di rete intranet e relative banche dati, poi si è deciso diversamente, ufficialmente perché per le ASL è più comodo averle in casa che fuori. Può essere revocata, in tutto o solo per una parte, in ogni tempo con le stesse modalità e procedure. L’art.9 ne istituisce il registro informatico, rinviando ad un futuro regolamento per compilazione e consultazione dello stesso. Le d.a.t. sono esenti da imposte di registro, bollo, conservatoria.
In condizioni di urgenza o se il soggetto sia in pericolo di vita non si applica la d.a.t.
L’art. 5 scaturisce anch’esso dal caso Englaro, perché riconosce al Ministro del Lavoro un potere di indirizzo, previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, regioni e provincie autonome, e di adottare le linee guida cui le regioni si conformano nell’assicurare l’assistenza domiciliare per i soggetti in stato vegetativo permanente. La sanzione per chi non si adegua è la revoca dell’accreditamento presso il Consiglio Superiore, e questo spiega il perché Eluana è stata portata in Friuli Venezia Giulia: questa regione ha infatti scelto di non fare più parte del S.S.N., e le sanzioni del ministro non si applicano.
È stata prevista la figura del fiduciario, maggiorenne e capace di intendere e di volere, cioè di colui che al bisogno dovrà andare a parlare con i medici, e accetta sottoscrivendo. Può anche rinunciare all’incarico e sempre per iscritto comunicandolo al dichiarante/mandante ovvero al medico curante se il mandante è divenuto incapace di intendere e di volere. La sua opera però deve essere sempre e solo all’interno dell’area delimitata dalle istruzioni lasciate dal de cuius. Il fiduciario ha essenzialmente compiti di sorveglianza sull’effettuazione delle cure e poi anche per impedire che si verifichino in capo al soggetto mandante situazioni di cui agli art. 575, 579 e 580 c.p.
Qualora il fiduciario non sia stato nominato o abbia rinunciato, in caso di contrasto tra più soggetti legittimati ad esprimere parere, o di inerzia, occorrerà richiedere l’autorizzazione del Giudice Tutelare,e il medico curante responsabile del trattamento sanitario è obbligato ad avvisare il pubblico ministero.
Siamo quindi giunti al ruolo del medico, e cioè dell’altro soggetto di questo rapporto.
Il comma 1 dell’art. 7 dice chiaramente che il medico non è vincolato dalle dichiarazioni del paziente e deve valutarle, sentito il fiduciario, e annotarle nella cartella clinica in uno con le sue motivazioni in base alle quali ritiene di seguirle o meno.
Il comma 2 proibisce al medico di tenere in considerazione indicazioni volte a cagionare la morte del soggetto o comunque in contrasto con norme giuridiche o di deontologia medica. Le indicazioni del mandante sono valutate dal medico, sentito il fiduciario, in scienza e coscienza, in applicazione dei principi universali dell’inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo i principi di precauzione, proporzionalità e prudenza. Quindi si tratterà di un agire accorto, molto misurato nei tempi e nei modi, e tendente ad evitare l’accanimento terapeutico e le cure ormai senza speranza, a vantaggio della medicina palliativa del dolore.
Se sorge controversia tra il fiduciario e il medico curante, questa deve essere deferita ad un collegio medico, nominato dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero, o dell’azienda sanitaria locale di competenza, e formato da un medico legale, un anestesista-rianimatore e un neurologo, sentiti il medico curate e uno specialista della materia. Il parere espresso dal Collegio non vincola il medico curante, che non è tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico o deontologico.
In sostanza è legittimato ad esercitare una sorta di obiezione di coscienza. A differenza dell’aborto, dove bisogna dichiararlo sin dall’inizio della collaborazione, questa obiezione non è permanente, ma tarata sul singolo caso concreto,e per di più venata da discrezionalità nella scelta. Questa discrezionalità può portare anche a disattendere totalmente le richieste del paziente, ove il medico possa motivare la sua decisione.
Ma il motivo vero di tanta discrezionalità è dato dal fatto che non si è voluto prevedere una discriminante dagli articoli 575,579 e 580 c.p., cosicché si doveva per forza tutelare l’autonomia del medico, che ha il diritto di non essere costretto a commettere reati di cui poi dovrebbe rispondere. Per il medico la norma del 579 c.p. è senz’altro la più insidiosa, perché può verificarsi a seguito di comportamenti richiesti dal paziente (si pensi ancora a Welby) come dimostrato dal comma 1 dell’art. 579.
Ciò ci porta a dire che la legge in commento in realtà miri a contenere la crescita della domanda di eutanasia e di accanimento terapeutico, a vantaggio di una gestione della malattia in funzione del contenimento del dolore, e di un prolungamento, il più possibile dignitoso, della vita umana.
Ma resta il fatto che ha in ogni caso aperto una strada che in futuro potrà portare all’eutanasia tout court, e al raggiungimento di questo obbiettivo manca solo la riforma degli art. 575, 579 e 580 c.p.

Avv. Giuseppe Cristaldi
Notaio

 

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